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Un perfetto equilibrio confusionale.

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Un perfetto ‘equilibrio confusionale’.
Lacan e me.

Parlando davanti allo specchio del bagno, in presenza di Jacques, convengo di apportare una leggera variante alla prospettiva lacaniana su alcune certezze acquisite, affatto scontate, in una delle quali si fa riferimento allo “squilibrio confusionale” di alcuni soggetti che, pur in stato confusionale, trovano nella loro quotidianità un proprio costante ‘equilibrio’. Faccio un esempio: Margy E. vive in un appartamento spazioso in centro città, arieggiato e ben illuminato, sì da permettersi una vita agiata e accomodante, a tal punto da circondarsi di mobili e quadri d’autore di un certo prestigio, oggetti di design, collezioni di libri, dischi musicali e film, secondo una scelta del tutto personale ma che darebbero le vertigini a chiunque volesse azzardare una lista o un ipotetico inventario.
Non c’è che dire (o ridire), per carità! Si pensi tutto ciò come proiettato in un possibile ‘bazar’ orientale, stracolmo di migliaia di cianfrusaglie d’ogni genere: poggiati qua e là vecchi giornali e riviste, tappeti e cuscini colorati, sculture lignee e marionette, per non dire dei ventagli incorniciati alle pareti. Altrove: manufatti e utensili di tipo contadino, moderni elettrodomestici da cucina, alimenti ancora imbustati di un’ultima visita al supermercato e, dulcis in fundo, una tavola costantemente apparecchiata, pronta a ricevere chiunque si presenti sulla porta, come se non si stesse aspettando altro. In questo caso io che mi domando se sono approdato al Bazar di Istanbul o al Suk del Cairo, o chissà, a L’Antico e le Palme di San Benedetto del Tronto o solo al mercato di Porta Portese in quel di Roma.
Nient’affatto, mi dico appena sveglio, sono in casa della mia migliore amica e tanto basta. Margy E. è una donna amabile e solare, generosa d’affetti e prodiga di liberalità ma che, forse, o proprio per questo, vive nel disordine assoluto, perfino l’orologio appeso alla parete segna un orario a dir poco strano, quasi ad avallare il detto che “almeno due volte al giorno segna l’ora esatta”. Non so dire se sia corretto vivere in tale continua approssimazione, ma comprendetemi, appena sveglio di primo mattino, almeno al suo orologio segna le 11:00, la cosa di per sé confonde non poco le idee, almeno le mie, che non riesco neppure a trovare la porta del bagno. George fai in fretta la colazione è in tavola! – esclama Margy dall’altra stanza. Quando mai, a quest’ora, mi dico, perplesso pensando a quale ora dunque è prevedibile il pranzo.
Ovviamente non è tutto, il bagno rappresenta il ‘salone delle meraviglie’: spazzole e spazzolini, pennelli e tamponi, ciglia finte e parrucche, matite colorate da far impallidire la tavolozza di Matisse, asciugamani d’ogni dimensione appesi qua e là finanche agli sportelli della doccia, ed altri minuscoli e colorati che non saprei dirne l’uso, una mutandina (si fa per dire) di pizzo color lilla, un’altra nera, un’altra ancora rossa fuoco. Nonché alcuni reggiseno minimalisti, non suoi penso, poiché non potrebbero sostenere l’abbondanza trasbordante delle tette di Margy. Non c’è che dire, non riesco a trovare il rotolo della carta igienica. Dopo la doccia riesco a malapena a trovare il fon per i capelli allorché tutto incomincia a vorticare in aria, come per l’arrivo improvviso di un ciclone. Mi chiedo che circo è questo?
Chiamo ad alta voce: Margy mi serve il tuo aiuto! Ma George che mi combini, non hai pensato di abbassare la potenza del fon? In verità no. Sta a vedere che è mia la colpa di aver mandato ogni cosa in aria, non sua che ha spento il fon sulla tacca della bora. Ma che cosa direbbe l’amico Jacques (Lacan) a proposito di tanto scompiglio? – chiedo alla figura riflessa nello specchio (cioè io). È il sintomo della paranoia latente che abita ciascuno di noi come possibile consequenzialità della psicosi di uno “squilibrio costituzionale”. Lampante ma non chiaro, disarmante direi. Il fatto è che Margy agisce istintivamente in modo ovvio. Nel suo ‘casino’ riesce a divincolarsi dalla presa occulta delle cose, entrare e uscire con ovvietà negli scaffali e nei cassetti, negli sportelli degli armadi e degli appendiabiti ancora non disfatti di ritorno da un ultimo viaggio.
Quel che conta, sempre che gli si dia la giusta importanza, sta nel fatto che Margy, pur nella sua vaga (nessuna) concezione di ordine, trova tutto ciò che le occorre in un battibaleno e nel modo più inimmaginabile, come se tutto stesse per lei a portata di mano. Sì certo poi lascia ardere sul fuoco la casseruola del sugo giusto in tempo per non farlo bruciare del tutto, mentre sta buttando giù la pasta nell’acqua che bolle, rovescia del vino nel versarlo frettolosamente nei calici di cristallo, ma solo casualmente. Che vuoi che importi George, le tovaglie si lavano, mentre noi vogliamo brindare, non è così? Cin, cin e auguri! Vado a riordinare il letto. Ma a che serve mi chiedo, dacché ci siamo appena alzati? Per un momento ho pensato che stavamo preparandoci per uscire, ma poiché stentavo ad alzarmi da tavola, ho sentito la sua mano trascinarmi via, nell’altra stanza ovviamente.
Definire tutto ciò un plausibile ‘equilibrio confusionale’ mi dice che sono nel giusto, che le parole spese a definire la paranoia un elemento di ‘squilibrio esponenziale’ da parte di tanta letteratura scientifica, psicologica e psicoterapica, mi dispone verso la ‘illogica’ conclusione che percettivamente Margy, dentro “la somma dei suoi elementi” è assolutamente originale, in bilico se vogliamo, fra l’euforia del suo mondo surreale, e la schiacciante realtà dell’ontologia classica che pretende, costi quel che costi, il condurre una vita ordinata e conclusa in se stessa. Questa ipotesi formale (e antipatica) dice alla figura speculare dentro lo specchio che, c’è qualcosa d’altro, un di più rispetto all’immagine che rappresenta, e proprio per questo motivo essa esercita sul soggetto (l’io che mi porto dentro), un simile potere di fascinazione.
Quel qualcosa in più che sta nello sguardo speculare al nostro da cui spesso prendiamo le distanze, nel timore che ci riveli quel che siamo: “la piccola fragile immagine in uno specchio”, e non quello che vorremmo apparisse di noi, senza crepe né ombre alcune: la paranoia vagamente nascosta di un vivere a confronto con un narcisismo eclatante ...

(continua)


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